Sebastiano Mortellaro / Agorà
a cura di Giusi Diana

PERIODO
22 gennaio / 25 febbraio 2012
VERNISSAGE
Domenica 22 gennaio, ore 18.00
LOCATION
BOCS, via Grimaldi, 150 - 95121 Catania

Era il 1968 quando Walter De Maria (1935, Albany California) occupava lo spazio espositivo della galleria Heiner Friederich di Monaco di Baviera, con 50 metri cubi di terra, dando origine alla prima delle sue Earth Room; tanta acqua è passata da allora sotto i ponti dell'arte, ma l'urgenza critica di quell'ultimo scorcio degli anni '60, quel bisogno profondo di cambiare le regole e di mettere in crisi i modelli, posizione che in Italia venne assunta da alcuni protagonisti dell'Arte Povera – un esempio su tutti: la mostra di Jannis Kounellis (Pireo 1936) presso la galleria romana l'Attico di Fabio Sargentini, con l'"esposizione" di dodici cavalli vivi (1969) - si ripresenta in questo 2012 appena iniziato, nel lavoro recente di Sebastiano Mortellaro (Siracusa 1974).
Proprio la "galleria" come luogo fisico, di più - come spazio di relazione, spesso negato come tale, e edulcorato da un sistema dell'arte sempre più autoreferenziale, è al centro di Agorà, la personale concepita appositamente per lo spazio espositivo catanese BOCS. Una serra di dimensioni ambientali, progettata e costruita al suo interno dall'artista, lo occupa interamente, in tutti i suoi 16 metri di lunghezza, occludendo parzialmente lo spazio alla percezione sensoriale e denunciando così la crisi di un modello di fruizione passiva dell'arte, da parte di un pubblico sempre più escluso da scelte linguistiche e espositive. L'idea di una valenza pubblica, collettiva del linguaggio artistico a discapito di una sua eccessiva personalizzazione si pone criticamente nei confronti di certi modelli dell'arte estetizzanti e decadenti, oppure inutilmente diluiti in una vacua spettacolarità, in una facile ironia, priva del carattere problematico che l'arte, come coscienza critica del tempo in cui opera, dovrebbe mantenere. L'assunzione all'interno dell'opera di Mortellaro del lavoro di un altro artista, Aldo Taranto, diventa fulcro tematico di quel processo di condivisione basato sulla relazione umana, oltre che artistica, che fa del rifiuto dell'individualismo, un vero e proprio manifesto programmatico.
Giusi Diana




CLANDESTINO
CORRADO AGRICOLA

FILISTO251 SIRACUSA

8/9 OTTOBRE 201

filisto251, studio e collettivo di artisti periodicamente promuove scambi di esperienze con altre associazioni ed artisti. In occasione della settima edizione della Giornata del Contemporaneo promossa da Amaci (Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani), ha chiesto a Corrado Agricola, artista siciliano che da diversi anni vive a Firenze, di sviluppare e realizzare in loco un suo nuovo progetto interagendo con gli spazi condivisi dagli artisti che a filisto251 fanno riferimento e soprattutto con il territorio.

Intervista di Aldo Taranto

Nei precedenti tuoi lavori, soprattutto in Safety distance, analizzavi minuziosamente e direi crudamente quei microcosmi domestici abitati da individui che si rispecchiano nel proprio status per trovare conferme alla propria esistenza: tautologia inversa che porta suo malgrado ad uno sdoppiamento tra l’esistenza e la sua immagine. Michael Foucault aveva colto quanto sia deprimente la fissità dell’immagine (propria) rispetto alla vitalità dell’apertura all’immaginario. E’ una questione di confini: tra me e te c’è una superficie che si chiama pelle, direi un confine superficiale. I confini prestabiliti, ovvero quelli territoriali e falsamente identitari, non sono superfici quanto barriere, a seconda alte o profonde. Tu, con questo nuovo progetto, sposti il tuo angolo di riflessione su quello che viene definito dai media il fenomeno dell’immigrazione clandestina. Quali collegamenti con il tuo precedente lavoro vi sono?

In Safety distance parlavo del mito dell'identità: in qualche modo evocavo l’individuo che trova conferma della sua esistenza e convinzione nell'esaltazione del limite tra sé e l'estraneità rispetto a sé. Riflettevo sullo spazio della relazione interpersonale e sulla capacità di condivisione dell'uomo oggi nella nostra cultura e civiltà occidentale. Rappresentavo la scena nella quale si coltivano conflitti tra personaggi, estranei tra di loro o anche appartenenti ad un nucleo familiare, comunque tutti interpreti dell'atteggiamento che ogni singolo cittadino adotta negli ambienti di condivisione sociale, dove solo il disturbo causato da parte di uno dei soggetti crea le condizioni per la conoscenza reciproca. Non altro che la parafrasi di quei comportamenti tipici della società mediatica la cui natura è semplificata dal sistema dell'informazione, la quale porta all'attenzione del pubblico, direi in maniera rapida e indolore, luoghi, persone e culture remote, solamente nel momento di un disastro o di una situazione d’emergenza. Ed è proprio qui che s’inserisce questo mio ultimo lavoro: la nostra percezione del fenomeno dell'immigrazione clandestina non è diretta, la nostra conoscenza di quella drammatica realtà ci arriva attraverso i media nel suo aspetto più scomodo: gli sbarchi di clandestini si susseguono giorno dopo giorno turbando la nostra tranquillità (apparente) e creando un disturbo. Diversamente da Safety distance, dove l'incidente determinava il punto della conoscenza, in Clandestino il processo è diverso. In realtà siamo a conoscenza solo della loro scomoda presenza. Cosa sappiamo di questa gente? Non parliamo con loro, non abbiamo spazi di condivisione. Conosciamo il loro paese di provenienza e possiamo immaginare la miseria e le condizioni che li costringono ad un viaggio al limite tra la vita e la morte. Lo spazio prossemico – cioè la distanza che ogni individuo pone tra sé e gli altri, i potenziali aggressori, gli indesiderabili per definire un'area di sicurezza – in Safety distance veniva rappresentato come uno spazio vuoto che denunciava l’incapacità dell’individuo di aprirsi verso l'esterno. In Clandestino l'area di sicurezza è rappresentata dai Centri di Accoglienza: un luogo non luogo, una barriera che non pone le condizioni per una reciproca conoscenza. Ho provato ad immaginare, dunque, uno spazio vuoto, una casa, delle stanze dove depositare le tracce di un viaggio di un clandestino che racconta un po' di se e del suo mondo. Un ambiente d’interazione, ospitale, permeato di segni di una cultura lontana e il più delle volte fraintesa, proprio perché diversa. Il mio è un omaggio a tutti gli uomini, donne e bambini che hanno compiuto questo viaggio alla ricerca di un futuro migliore. L'idea si è concretizzata nel momento in cui nella spiaggia di Marianelli (Noto), la sera del 7 Agosto 2011, è arrivato un barcone di 15 metri proveniente dall'Egitto con 42 persone di cui 10 minorenni, rintracciate e dalle forze dell'ordine e condotte nei centri di accoglienza. Il barcone rimasto arenato in spiaggia per settimane, lacerato e scomposto dalle onde, è stato isolato, i suoi numerosi pezzi recintati in aree interdette sulla spiaggia, esattamente come le persone che vi erano a bordo: distanza di sicurezza, per garantire l'incolumità dei bagnanti. Il barcone in spiaggia diventa un'attrazione turistica, dove scattare foto ricordo e magari farci un salto dentro per sentirsi parte di un pezzo di storia contemporanea.

Cees Nooteboom dice che nell’arte araba non ci sono ne volti ne figure umane cui poggiarsi e non c’è altro che forma, costruzione, decorazione, geometria e armonia. Nessun appiglio, solo vertigine, finché non scopri che nelle decorazioni si celano lettere e parole. Chi non conosce la lingua araba è come un cieco di fronte a quei segni e benché può vederli la sua bocca non è in grado di formulare il suono di quelle parole, la loro melodia: cieco e muto. Tu stai lavorando con la scrittura araba, ti senti anche tu un po’ cieco e muto?

La mia conoscenza del mondo arabo è limitata ai viaggi, all'incontro con amici e alle letture. Sono stato sempre affascinato dalla scrittura araba. In realtà anch'io sono un po’ cieco e muto nel senso che non conosco la lingua e non so pronunciare il suono di quelle parole. Mi piacerebbe moltissimo conoscerla. Ma ho colto sempre, nei caratteri della scrittura araba, un senso profondo di armonia. E quando ho visto, per la prima volta lo spazio dove creare il lavoro, ho immaginato che per coprire il senso di vuoto delle stanze, dove depositare il lavoro di documentazione del viaggio, della fuga e i resti abbandonati nel luogo dello sbarco, avrei avuto bisogno di qualcosa che suggerisse il senso di una forma armonica. Un modulo decorativo con un contenuto. Cosi ho cercato un testo che contenesse in se le tracce della parola viaggio o dell'idea del viaggio in un contesto di tradizione. E per tradizione intendo qui il significato profondo e il senso della parola preghiera. Lo scritto che riporto in mostra è semplicemente la spiegazione di come eseguire in forma ridotta le cinque preghiere rituali (salat) giornaliere durante un viaggio. Se per esempio una preghiera contiene quattro raka'at (posizioni), si riduce a solo due per agevolare le persone in viaggio. Volevo lasciare la sensazione di un coro di voci, ma delle quali non puoi sentire il suono. Muto. Solo segni di una grafia che molti di noi non possono pronunciare. Dunque l'impossibilità di far proprio un pensiero scritto: la stessa cosa che sicuramente vivono i clandestini quando entrano in un paese straniero. Il secondo testo in arabo(*), inserito nel contesto del lavoro, non è propriamente una preghiera ma una richiesta di aiuto un'invocazione. 
L'islam distingue tra salat, le preghiere rituali quotidiane, da recitarsi in determinati ore prescritte, e varie forme di preghiera libera, privata e personale.

Perché la preghiera?

Mi chiedi perché la preghiera. Credo che in un momento di estremo bisogno molti di noi hanno avuto bisogno di invocare l'aiuto divino o se non altro di affidare il proprio destino a qualcosa di superiore. Ho immaginato tutte le persone che in un determinato momento si trovano in uno di quei barconi: le ho viste affidare il proprio destino al loro Dio, chiedendo di poter arrivare sani e salvi, come ultimo desiderio.

Con questo lavoro porti la tua riflessione verso un più vasto teatro rispetto a quello dell’angusta relazione in cui si consuma il solipsismo dell’individuo della nostra civiltà occidentale: la scena include mare e terra, frontiere reali ed immaginarie e orde di umani in viaggio. Il viaggio è meta e territorio da attraversare. Da clandestino l’attraversamento (il deserto, il mare) è l’incognita. E la meta è invece sicura? La domanda risuona nel tuo nuovo lavoro, cosicché non è più certo cosa sia metafora di cosa, se la safety distance tra gli individui sia metafora della distanza tra le culture o viceversa. Il ribaltamento delle immagini nelle tue opere è tanto arbitrario quanto disarmante. Sono le contraddizioni e fratture dell’attualità che si riflettono nella condizione di solitudine e isolamento dell’uomo o viceversa le chiusure e la sclerosi dell’individuo a specchiarsi in quelle? Cosa è specchio di cosa? O non è questa doppiezza più vera e più completa, una realtà?

La realtà del clandestino, del sans papier ricorda la nave dei folli: ma se quella navigava all’infinito toccando diversi porti abbandonando l’uomo all’incertezza della sorte, i clandestini sono condannati a girare in tondo come in uno stagno, il loro status è per l’appunto stagnante. Viaggiare, spostarsi, migrare, mettersi o essere in movimento sono condizioni note e comuni alle civiltà umane di tutte le epoche e zone geografiche che si esplicano di volta in volta con significati e modalità diverse. Il tema del viaggio è quindi universalmente riconosciuto e rilevante. E' significativo che il viaggio ricopre un campo metaforico ampio e acquisito in modo simile in tutte le civiltà. La vita umana di per sé stessa è il cammino, il pellegrinaggio, la via di mezzo. La letteratura italiana ce ne offre un chiaro esempio con il "cammin di nostra vita" di Dante. Incontrando un clandestino, un immigrato, possiamo avere il desiderio di aiutarlo o di mandarlo via. Ma per un attimo pensate al suo viaggio e capirete cosa ha dovuto fare per arrivare nel nostro paese. Quando ho affrontato questo mio nuovo lavoro ho immaginato uno spazio vuoto, una casa, delle stanze dove depositare le tracce di un viaggio di un clandestino che raccontassero un po' di lui e del suo mondo: un ambiente d’interazione ospitale, permeato di segni di una cultura lontana e il più delle volte fraintesa, proprio perché diversa.

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(*) Allah è il più grande, Allah è il più grande, Allah è il più grande. Lo lodiamo per aver reso possibile per noi questo viaggio e contro di lui nulla possiamo. Certamente ci riuniremo al nostro Dio. Oh Allah, ti chiediamo buona sorte e pietà durante questo viaggio e forza per pregarti. Oh Allah, rendi questo viaggio facile da intraprendere e breve la distanza da percorrere. Oh Allah, sei il nostro compagno in questo viaggio e sei l'unico a cui affidiamo le nostre famiglie che abbiamo lasciato. Oh Allah, cerco il rifugio in te dalle sventure e dai pericoli di questo viaggio. Allah, proteggi le nostre famiglie e le nostre case dalla povertà fino al nostro ritorno.






LA PRIMAVERA DELL'ARCHITETTURA
Incontri, mostre, eventi collaterali

ORDINE DEGLI ARCHITETTI DELLA PROVINCIA DI RAGUSA

Terzo appuntamento
IL PROGETTO DI RESTAURO E RIUSO DEI MONUMENTI

22 MAGGIO 2010
VITTORIA(RG)

EVENTO COLLATERALE

sebastiano mortellaro / mela salemi / aldo taranto / stefania zocco
COLLATERAL PLACEMENT
collaborazione protezione civile






Quando ci è stato rivolto l’invito ad una nostra partecipazione come artisti al vostro terzo appuntamento – “Progetti di restauro e riuso dei monumenti” – ci siamo concentrati soprattutto sul sottotitolo della manifestazione – la gente incontra l’architettura, l’architettura incontra la gente – partendo dal concetto di Centro storico come spazio ereditato su cui l’architettura è chiamata a misurarsi con prudenti progetti di restauro di monumenti in funzione di un loro riuso. Dunque lo spazio ereditato come spazio delle relazioni umane e il riuso di alcuni elementi presenti in esso in funzione dei mutamenti: di qui Collateral placement, costruito come sequenza percettiva il cui primo atto è il posizionamento nel centro storico di tende ministeriali della protezione civile per le emergenze, posizionamento nevralgico di un flusso di relazioni deviate su una direttrice forzata da un’ipotetica necessità, che si conclude con l’atto, primario per la sopravvivenza, del mangiare che si svolge nel campo della protezione civile e a cui sono stati chiamati gli architetti partecipanti al convegno e la gente del luogo. In secondo luogo, il progetto di riuso dei monumenti: la nozione di riuso non è affatto neutra. Serve a tal proposito citare “Primo intervento”, un lavoro su Montevergini, museo d’arte contemporanea di Siracusa condotto da Sebastiano Mortellaro e Stefania Zocco, a cura di Francesco Lucifora e Aldo Taranto

Il commento
Collateral placement merita un commento. Posizionamento collaterale a due ordini di realtà: ciò che è perduto e l’anticipazione che ci attende. L’idea stessa di modernità è quella di una dimensione continua, in cui passato e futuro intercettandosi coesistono. Questo è il lato enigmatico che in qualche modo sta alla radice delle cose: osserviamo la realtà e siamo già in un’altra realtà. Non si potrà mai dire “questo è dietro di noi, non ci appartiene più”, oppure “questo è davanti a noi, non è ancora reale”. Ci troviamo sempre in questi due ordini di realtà: ciò che è passato e l’anticipazione del futuro. Questo vale anche per l’abitare, vale per il costruire, che sono modalità fondamentali dell’esistere dell’uomo.

Lo spazio delle relazioni
L'orizzonte teorico e pratico dell'arte di questo decennio si fonda in gran parte sulla sfera dei rapporti interumani. Come artisti ci interessava proprio mettere alla prova i meccanismi di relazione all’interno di una comunità, soprattutto in riferimento allo spazio ereditato. Non a caso abbiamo scritto nel testo di presentazione che quel che resiste nei centri storici è l’imprinting relazionale. Costruita una certa sequenza percettiva essa ha funzionato contemporaneamente come macchina di produzione di significati. Una domanda che si pongono gli artisti, ma non solo gli artisti, è: come posso abitare nella realtà? Come posizionarmi di fronte all’oggetto perduto, al passato, e contemporaneamente far fronte al futuro, anticipandolo? E’ chiaro che la struttura riflessiva deve essere impostata sul mutamento, sui mutamenti della stessa percezione.

Sulla città che cambia
Ci deve essere una differenza tra le cose che cambiano e il divenire. Divenire non è la stessa cosa che portare un cambiamento, imporlo alle persone e non lasciare loro nessuna via di fuga. Le città cambiano velocemente nella confusione e si assiste all’erosione delle loro caratteristiche. Lavorare sul divenire di una città significa invece avere una coscienza acuta della sua identità, identità su cui orientare i cambiamenti. Il divenire si decide rispetto a quello che lo precede dando senso ad un’architettura che parte da un pensiero preliminare, dal concetto.

Riuso dei monumenti
Collateral placement sceglie il concetto che si pone rispetto al contesto in posizione conflittuale ed è per questo che si può definire un non-avvenimento in opposizione ai cosiddetti avvenimenti reali. Sulla stessa linea, “Primo intervento” - realizzato da Sebastiano Mortellaro e Stefania Zocco nell’aprile 2010 a Montevergini, Galleria Civica d’Arte Contemporanea - ha funzionato come dispositivo di messa alla prova del contesto. La nozione di riuso di un monumento non è neutra, deve dare prova di sé. Non è soltanto una modificazione che si richiede ma una mutazione: il luogo cambia completamente di senso, soprattutto nel caso di musei d’arte contemporanea. La scelta deve essere di considerarli come un pezzo di città, come un insieme urbano interno/esterno. Così i due artisti in “Primo intervento” realizzano con gli strumenti dell’arte in uno spazio istituzionale degradato un luogo di discussione che si confronta con la realtà. Invece di riempire di proprie opere lo spazio, smontano, anziché interpretarne i sintomi, uno scenario di macerie e interdizioni per ricostruirne uno nuovo mettendo alla prova condizioni più convenienti. Superando l’aspetto polemico per lo stato d’abbandono del museo “Primo intervento” ribalta, secondo un’attitudine critica propria all’arte contemporanea, la concezione del museo come sede statica per metterlo alla prova in movimento, verso nuove soggettivazioni più rispondenti agli attuali processi sociali caratterizzati da una progressiva rottura dei confini in ogni ambito. Liberando spazi, aprendo passaggi ostruiti e finestre chiuse, restituendo memoria al museo, si sono sprigionati nuovi circuiti di energia e nuove intersoggettività. Montevergini diventa in quel frangente un cantiere aperto sia materiale che immateriale, e ciò a dimostrazione che condizioni migliori producono risposte adeguate mentre la sola interpretazione dei sintomi produce aggiustamenti non adeguati. Troppe “giacenze” e troppi “scarti” per un museo d’arte contemporanea: rivelatore in negativo di quanti accumuli, effetti collaterali produce a volte l’arte. I due artisti con “Primo intervento” hanno messo alla prova criticamente il museo, la sua identità e la sua storia: in una dimensione continua tra retrospettiva e anticipazione il fulcro della levatura.

Il reale racconta il reale
Collateral placement nella sua materialità si è concretizzato in un campo attrezzato di protezione civile, con i suoi uomini, le attrezzature, gli strumenti: un posizionamento nevralgico nel centro storico di Vittoria, una confluenza in discontinuità normativa, un’emergenza dello stare, una forzata necessità. Un posizionamento che fronteggia l’esistente e anticipa il futuro: non una metafora per dire una cosa attraverso un’immagine, ma la tautologia del reale che racconta il reale. Lo spostamento, la deviazione riguarda più che altro la percezione di quel che vediamo, ciò a cui assistiamo e partecipiamo, dal sensibile all’immateriale. Come immateriale è lo spazio delle relazioni, il sistema di chiusure e di aperture su cui si modella l’intersoggettività.
P R I M O I N T E R V E N T O

Sebastiano Mortellaro / Stefania Zocco

a cura di Francesco Lucifora e Aldo Taranto

3 - 25 Aprile 2010

Galleria Civica d’Arte Contemporanea Montevergini Siracusa


I due artisti hanno lavorato, per alcune settimane precedenti la mostra, all’interno di Montevergini, e la loro azione, ripresa in video, è stata visibile in simultanea da un monitor posto all’esterno del museo. Per le riprese sono state utilizzate le telecamere a circuito chiuso e una telecamera mobile. L’intervento sul sito, finalizzato a restituirlo alla sua funzione e dignità, si è caratterizzato quale dispositivo di riflessione sull’uso e il valore del museo d’arte contemporanea in quanto luogo di emanazione di idee riferite al tessuto sociale: una riflessione non unicamente teorica, tra arte e esperienza.

Intervenire sul sito ripulendolo dai detriti e riaprendo percorsi ostruiti, è stata un’operazione, svolta con gli strumenti dell’arte, sul concetto di contesto. Il carattere aperto del lavoro dei due artisti – aperto in più sensi, anche nella scelta di mediarlo attraverso una visione simultanea all’esterno – ha marcato il loro faccia a faccia con il sito considerato essenza stessa dell’opera.
I video, durante la mostra, sono stati presentati attraverso quattro monitor disposti in diversi punti del museo in una sorta di “doppio canone rovesciato”.

……..

Se la vera critica è una critica del reale da parte dello stesso reale, il tentativo di restituire dignità e funzione a Montevergini è un’operazione critica. Sebastiano Mortellaro e Stefania Zocco in “Primo intervento” realizzano in uno spazio istituzionale degradato un luogo di discussione in confronto con la realtà. Invece di riempire di opere lo spazio, lo smontano. Smontano uno scenario di macerie e interdizioni per ricostruirlo nuovo, per mettere alla prova condizioni più convenienti.

Così come il materiale del sogno non è separato dal suo significato, allo stesso modo il commento non lo è dalla realtà: i materiali video non stanno in rapporto all’opera come sottotitoli posti fuori campo, ma in quanto commento produttivo e simultaneo di azioni e mutazioni. “Primo intervento” è in questo senso un format, un format di rappresentazione e di lettura di Montevergini in sé: non un posto in cui entrare ed esporre la propria arte come processo finale di un’operazione esterna, ma luogo di produzione, di produzione di significati nel suo darsi, in diretta.

Non dunque come riempire uno spazio, il problema, ma: come registrarne i mutamenti raddoppiandoli in commento simultaneo? Come mettere alla prova il confronto tra l’immagine e la realtà e farlo avvertire fuori, renderlo esterno?Come mettere faccia a faccia realtà e duplicazione?

Andando oltre l’aspetto polemico per lo stato d’abbandono in cui versa il sito, “Primo intervento” ribalta la concezione del museo-sede statica per metterlo alla prova rispetto a nuove situazioni e nuovi soggetti sociali. Montevergini è diventato in quel frangente un cantiere aperto per una moltitudine di visitatori di passaggio. Quanto avvenuto, è la dimostrazione che condizioni migliori producono risposte adeguate mentre “intervenire sui sintomi” produce solo aggiustamenti. La mostra ha tentato di tradursi in struttura riflessiva impostata su un dato nuovo: la disposizione all’intermittenza percettiva di un pubblico nuovo e transitorio.

Non tanto il recupero di un sito degradato per esporvi proprie opere, si voleva, quanto il recupero in sé come opera. Troppe “giacenze” e troppi “scarti” sono stati smaltiti, troppi per un museo d’arte contemporanea: rivelatore in negativo di quanti accumuli collaterali produca certa arte.

I due artisti con “Primo intervento” hanno messo alla prova criticamente il museo, la sua identità e la sua storia: in una dimensione continua tra retrospettiva e anticipazione il fulcro della levatura.
Galleria Civica d’Arte Contemporanea Montevergini - Siracusa
C.o.C.A. Center of Contemporary Arts - Modica
Siracusa/Modica
In contemporanea
3/4 ottobre 2009
a cura di Aldo Taranto e Francesco Lucifora
in collaborazione con Associazione Uburè e Laboratorio Autonomo Potenziale



Siracusa/Modica In Contemporanea nasce dall’intento di mostrare il presente nelle possibili declinazioni che soltanto il crossover delle arti può svelare. Solo che il presente non è territorio dai confini definiti, non ha frontiere politiche come le nazioni, è in continua evoluzione, e i transiti passano per nuovi immaginari legati fortemente alla vita reale, all’esperienza di altre percezioni, corpi migranti e migrazioni nel corpo. Quando, poco tempo fa, gli attraversamenti rimanevano confinati nella sua formulazione concettuale – e si manifestavano nel fenomeno della contaminazione polimorfa delle arti visive, della musica, del teatro – nel panorama dell’arte si intravedevano appena le trame attuali determinate dall’estrema riflessione del presente su se stesso, del presente autoriflesso. Oggi i transiti più che un anelito sono una necessità, più che attraversare, l’arte è attraversata, ed insieme ad essa l’artista. Ogni volta un nuovo inizio, come nel rituale nomade del togliere il campo.
Ma le linee dei transiti non sono affatto casuali, sono misteriosamente collegate in modi complessi, piste che vanno indietro e avanti, sotto e sopra e che si fanno strada a volte a fatica nel territorio della banalità sopraffacente. Non importa, quel che conta è la percezione dell’esistere. Il sentire la separazione tra il mondo umano e quello animale e vegetale, se facciamo caso ai miti antichi e ai rituali di ricomposizione di quel legame spezzato, era proprio degli uomini del passato. Nell’epoca attuale quella separazione, benché si sia acuita, l’uomo di oggi più che sentirla la ri-sente, la avverte come messaggio mediatico, è l’eco di ogni cosa. Ricomporre la relazione tra il nostro corpo e i luoghi è l’urgenza. I divieti di transito iniziano a deflagrare. Rimane l’arte.
Rimangono le direzioni: a Siracusa, 9Cerchi in movimento, 9 cerchi come le piste per la danza del mito indonesiano di Hainuwele, in cui la forza della danza rituale connette morte e nascita, mondo umano e mondo della natura. La stessa forza persiste negli attori, performers, artisti, danzatori nei loro video che presentiamo.
A Modica, nasce il Center Of Contemporary Arts, biblioteca specializzata di arti contemporanee con la creazione di un archivio che vuole raccogliere, conservare e restituire le produzioni cartacee e magnetiche costantemente prodotte nel circuito delle arti. Cataloghi, riviste, opere e video, sono nuovi segmenti per orientarsi e ri-orientarsi tra gli attuali simboli e codici dell’esistenza nella contemporaneità.
Verso Sud-Est e Sovrimpressioni, una mostra e una serie di talks vivaci con alcuni dei protagonisti del mondo dell’arte che parlano ad un pubblico digiuno di confronti diretti con gli artisti. A Modica, si registra una particolare attenzione verso i movimenti del contemporaneo, una fascinazione verso le arti e la crescita parallela di un giovane collezionismo che supporta inevitabilmente gli artisti emergenti. C.o.C.A integra la creazione di un patrimonio comune da mettere a disposizione di persone e luoghi che troppo a lungo hanno atteso una visita o che hanno dovuto spostare il domicilio per godere del sapere che deve essere diritto fondamentale di ogni territorio senza distinzioni geografiche e culturali.
E’ finita l’epoca delle lamentazioni del sud, si inaugura la stagione di un’identità siciliana che nelle arti del contemporaneo trova il riscontro del proprio presente e la mappatura del futuro, senza steccati né barricate, ma con influenze trasversali tra pittura, scultura, teatro, performing arts e sapere condiviso.



9 cerchi in movimento / artisti (Siracusa)
SANTASANGRE
CESARE VIEL
CESARE PIETROIUSTI
PAOLA ANZICHE’
VINCENZO CARTA E BENJAMIN VANDEWALLE
EVE BONNEAU
ALESSANDRA COPPOLA
LARS ARRHENIUS
COSMESI



C.o.C.A. Preview (Modica)
Verso sud-est_sovrimpressioni
Interviste
GIOVANNI LA COGNATA
ROSARIO ANTOCI
ALDO TARANTO
NINNI ROMEO
ADALBERTO ABBATE
CESARE VIEL
CESARE PIETROIUSTI
SALVATORE SCHEMBARI
LUCA DEL GUERCIO
Artisti
Rosario ANTOCI
Silvia GIAMBRONE
Giuseppe BOMBACI
Adalberto ABBATE
Gabriella CIANCIMINO
Claudio CAVALLARO
Stefania ZOCCO



IN CONT(RO)RARIO
SEBASTIANO MORTELLARO

filisto251 14 - 21 dicembre 2008

Siracusa via Filisto 251



A meno di non rifugiarci nell’utopico, dobbiamo confonderlo il tempo poiché lo spazio dell’esistenza si misura con il limite, mentre la riflessione e lo sguardo possono scambiarne il verso.
I singoli lavori autonomi di Sebastiano Mortellaro costituiscono il nucleo di un corpo d’opera rivelatore della sua ricerca e del suo metodo: guardare e trasferire al presente, immagini di un passato appena scomparso e a lui familiare, camuffandole.
Andare in questo modo contro orario, incontro al passato, può essere contrario all’attualità. Ma essere inattuali può diventare una forza, nel tempo.
Temi e linguaggi li trae da una memoria presente, sebbene dispersa e sommersa nell’uniformità dei modelli imperanti. Si chiede se e quale rapporto può esservi tra la sua identità e ciò che attraversa oggi il mondo, i temi della contemporaneità.
Sebastiano Mortellaro sembra indicarci il bisogno dell’uomo di incorporare parti di tempo che non appartengono precisamente alla propria esistenza ma che vi hanno a che fare.
Si tratta di farlo girare il tempo, di scambiarne il verso come in uno specchio, gesto che si muove nella direzione contraria.
(Aldo Taranto)



filisto251, spazio in cui lavorano tre artisti, è diventato per Sebastiano Mortellaro, dal novembre 2008, luogo di elaborazione e realizzazione di un suo nuovo progetto. Sebastiano Mortellaro si è mosso nel luogo come chi, ospite, porta con se un bagaglio esiguo e nell’angolo ricavatosi trova modo per un appunto, per una riflessione. Presenta ora il suo nuovo lavoro, quasi in trasparenza, senza nulla togliere a quanto nei tre diversi studi degli altri artisti si è andato sedimentando. Lavori che sono nati in mezzo ad altri lavori, tenendo fermo il punto di non spostare nulla delle cose intorno per trarne suggerimenti per il pensiero.



filisto251@hotmail.it
http://filisto251.blogspot.com/

a cura di edita43
edita43@hotmail.it
trepertre

Orazio Battaglia / Claudio Cavallaro / Stefania Cintoli
Germana Falco / Sebastiano Mortellaro / Morio Nishimura
Mela Salemi / Aldo Taranto / Sasha Vinci

5 ottobre 2008

filisto251_Siracusa


Un singolare appuntamento di una sola serata nel giardino dello studio di tre artisti (Claudio Cavallaro, Germana Falco, Aldo Taranto) ciascuno dei quali ne ha invitato altri due generando tre triadi.

Tre volte tre, nove artisti.

Si potrebbe altrimenti, e in vari modi, dire che il tre iniziale è elevato a potenza o della lettura variabile delle triadi, dello schema ad albero, la formula, i numeri, la crescita, l’evoluzione. Tutte cose che possono dirsi… o immaginare.

Infine, la terra. Del giardino, della cuspide sudest della Sicilia, di quella più vasta ancora.


edita43@hotmail.it